In occasione dei settant’anni della cruciale battaglia di El Alamein, pubblico i contenuti di un opuscolo edito dal Reggimento Artiglieria a Cavallo dieci anni fa per celebrare le Voloire “celeri d’Africa”.
Sono estratti della grandiosa opera del Conte Paolo Caccia Dominioni “El Alamein 1933-1962”
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PREMESSA
Sono trascorsi più di sessanta lunghi anni da quando il nostro reggimento fu impiegato in terra d’Africa, scolpendo nella sabbia pagine di gloria e di onore.
I brani raccolti in questo opuscolo appaiono come tasselli di un grande mosaico che ricorda le gesta compiute, in quelle terre lontane, dagli artiglieri con il kepì.
L’autore rievoca episodi che testimoniano la perizia tecnica, l’ardore, la tenacia, l’umanità e lo spirito di corpo che hanno accomunato, sempre ed ovunque, i militari che hanno prestato servizio nelle Batterle a cavallo.
Sono sprazzi di storia, ricordi, memorie che oggi rappresentano un passato che trae la sua continuità nell’essere fieri di appartenere ad una delle Unità più antiche e gloriose della Forza Armata.
Col. Bruno Bucci
71° Comandante delle Batterie a Cavallo
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Il conte Paolo Caccia Dominioni, terminati il suo impegno nella raccolta delle spoglie dei caduti di ogni nazione e la costruzione dei grande Sacrario a Quota 33, ha lasciato una testimonianza della sua presenza in terra d’Africa in “Alameín 1933 ‑ 1962” ove, in pagine memorabili ed umanissime, ha narrato – come in una antica saga – la grande battaglia ed i soldati che ad essa parteciparono.
Ricostruisce i fatti, ma soprattutto ricorda gli uomini da lui incontrati o di cui il deserto ancora narra gesta e sacrifici.
Ho ritenuto di riproporre, nel sessantesimo anniversario di quegli avvenimenti, le parole con cui egli ha reso onore e memoria ai Celeri: sono testimonianze preziose, sono l’immagine riflessa, ed il completamento, della sua opera.
Di lui, con intima, commossa partecipazione, Davide Beretta ha tracciato uno splendido ritratto con cui sento di dover chiudere questo mio modesto contributo di “per non dimenticare”, nel giorno in cui, ricorrendo la festa della nostra Santa Patrona, ricordiamo – nel suo nome – quanti onorarono il loro giuramento.
Un vecchio kepì
Milano, 4 dicembre 2002
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Paolo Caccia Dominioni
Alamein 1933-1962
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Pagg. 61-63
(9-10 luglio 1942) Il quarto della serie dolorosa è Leopoldo Pardi, maggiore comandante il II gruppo del 1° Reggimento Artiglieria Celere “Eugenio di Savoia”. Pochi nomi, nelle vicende attuali in Africa settentrionale, hanno avuto cosi chiara risonanza, specialmente presso l’Afrika Korps. I tedeschi appartenenti alle compagnie delle Oasi e i fanti della Savona lo ricordano a Passo Halfaya, il 16 giugno dello scorso anno, solo presso un suo pezzo da 100/17, tra i cadaveri dei suoi artiglieri: solo, il comandante del gruppo, caricava, puntava e sparava. Allora il gruppo si chiamava 1° del 2° Celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro”. In quel periodo il maggiore italiano di carriera Pardi formava una famosa coppia con padre Bach, al secolo pastore evangelico a Mannheim, poi capitano richiamato di fanteria, e finalmente maggiore comandante il battaglione tedesco di Passo Halfaya, posizione chiave. I due avevano portato a tale perfezione l’accordo tra cannonieri italiani e fanti tedeschi, da ricordare, pur negli spasimi del combattimento, il sincronismo degli acrobati al trapezio. Molti se ne stupivano, specialmente perché quei soldati parlavano lingue molto diverse. Anche Pardi e Bach erano molto diversi, Pardi poderoso e alto quasi due metri, Bach piccolino e dimesso, capovolgendo l’immagine popolare e classica attribuita alle rispettive razze. Pardi comandava. era un uomo calmissimo nato per condurre altri uomini. Bach manovrava bonariamente i suoi, come avrebbe fatto un paterno, maturo e volitivo richiamato di sangue latino. L’uno e l’altro adorati dalla truppa. All’alba di ieri 9 luglio il gruppo Pardi, unitamente alla 211 Panzer, è impegnato nell’estremo sud, verso la Depressione, quando un ordine improvviso lo sposta verso Deir el Anqar, a breve distanza dal posto dove era caduto Ferruccio Dardi, per arginare la forte pressione della 2^ neozelandese sulla nostra Brescia. Il maggiore è stato colpito alle 16,30, in piena azione di fuoco. Lo stesso proiettile ha fulminato il sergente maggiore Cipriano Ruggiero, l’artigliere Albino Botta, ordinanza di Pardi, e l’autista Remo Chierigato. Pardi, meno fortunato, è destinato a una lunga agonia: ha l’inguine squarciato; una coscia spappolata, una mandibola spezzata e una scheggia conficcata nella trachea. Lo soccorrono immediatamente due valorosi a lui devotissimi, il tenente Salvino Garetti e l’infermiere Giuseppe Clarico, indifferenti al fuoco accanito. Più tardi viene trasportato a un ospedale da campo presso El Dabah: per sessantacinque chilometri l’autoambulanza sobbalzerà sulle piste desertiche, sui pietroni, sui crateri delle esplosioni, ma il ferito non si lascia sfuggire un solo lamento. Un primo intervento operatorio è eseguito dal tenente medico Mario Ferrara, ma chi potrebbe ridar vita al gigantesco corpo martoriato che si spegne? Rommel da dieci giorni ha rinunciato al riposo, è sempre presente nei posti nevralgici, rimedia e provvede con ogni mezzo, scaraventa a destra e a sinistra i suoi reparti italo-tedeschi, ridotti a organici spettrali. Fritz Bayerlein, colonnello capo di stato maggiore dell’Afrika Korps, dice: “Non riusciamo a stargli appresso neppure con la radio” … …….. Ma Pardi, uomo non politico, a El Dabah, è in agonia. Rommel, appena lo ha saputo, abbandona tutto, balza sul celebre minuscolo Cicogna, vola presso il morente. Pardi deve essere salvato a qualunque costo, non c’è una nave ospedale appena giunta a Marsa Matruh? Si carichi il maggiore sopra il Cicogna, immediatamente, lo si porti sulla nave dove i feriti possono venire assistiti con ben altri mezzi, e soprattutto in ben altra atmosfera. Questo è l’ordine impetuoso. Ma Pardi non è trasportabile, morirebbe prima e soffrirebbe di più. In quell’istante giungono a Rommel, dal suo comando, gravi nuove: il fronte è rotto tra il mare e la ferrovia. Deve ripartire senza ritardo. Due grandi soldati si scambiano, in silenzio, l’ultimo sguardo. La fine attende Pardi nello squallido, polveroso deserto di El Dabah: un deserto senza dune bianche, senza mughi odorosi: soltanto pietrame, sabbia sudicia, casse sfondate e baracche militari. Subito dopo arriverà per lui una comunicazione già vecchia, attesa da lungo tempo, attardata nelle more degli uffici: è stato promosso tenente colonnello.
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Pagg. 71-72
La divisione Sabratba è scomparsa, dopo il grave cedimento del 10 (luglio 1942), e nonostante la bella riconquista di Tell el Eissa operata dal 1° battaglione dell’85° fanteria, colonnello Angelozzi, nel pomeriggio del 14 luglio. Il destino della divisione non poteva esser dubbio sin da quando era stata travolta dagli australiani proprio mentre giungeva in linea, dopo un viaggio faticoso e bersagliatissimo dal cielo, per occupare posizioni affatto sconosciute. Il 3° reggimento artiglieria celere “Duca d’Aosta”, ne divise le sorti. Così i reggimenti 85° e 86°, scompaiono silenziosamente dai nostri organici di guerra, soppressi da un fonogramma regolarmente protocollato (…) Anche per il 3° celere era stato decretato lo scioglimento, e i superstiti, attaccatissimi alla tradizione delle antiche “Voloire” o batterie a cavallo, erano sgomenti. E’ loro ventura la presenza in linea d’un maggiore artigliere che appartiene allo stato maggiore, del comando superiore, Giorgio Pellegrini di Firenze. Il 25 luglio egli prende l’iniziativa di inviare al generale Barbasetti di Prun, capo di stato maggiore, un drammatico marconigramma: “Al comando superiore tattico. 4/21. Per Eccellenza Barbasetti. Decisione scioglimento terzo celere est stata accolta grande costernazione tutti artiglieri. Assicuro V.E. che reggimento, che porta nome Duca d’Aosta, si est eroicamente comportato recenti combattimenti come nei passati. Personale superstite anela portare ancora in battaglia onore reggimento et nome principe sabaudo. Tra due giorni potrebbe entrare linea, se V.E. l’ordina, con tre pezzi 88 preda bellica che habet ricuperato et riparato, et cinque mitragliere da 20, il tutto motorizzato. Permettomi supplicare V.E. nome nostra Arma, mantenere in vita et per partecipare ulteriori operazioni con suo stendardo resti più brillante reggimento artiglieria italiano. Permettomi inoltre prospettare soluzione assegnare terzo Duca d’Aosta at XX corpo quale primo nucleo artiglieria. Maggiore Pellegrini”. Barbasetti, artigliere, acconsente: il 3° vivrà.
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Pagg. 73-74
(14 luglio 1942) Nella notte è severamente provato, sempre con un’abile manovra di sorpresa, il 2° gruppo del 1° reggimento celere, dove da soli due giorni è arrivata la notizia della morte di Leopoldo Pardi, l’indimenticabile comandante. I sei obici da 100/17 hanno lavorato tutto il giorno. Nel tardo pomeriggio giunge un gruppo di giovanissime reclute, che danno il cambio ai veterani da rimpatriare dopo ventiquattro mesi d’Africa. I nuovi sono stanchi e storditi, affatto impreparati alle emozioni della guerra desertica. Un gruppetto di tredici è affidato al sergente maggiore Cornelio Rossi, poco entusiasta del dono ingombrante, che tuttavia provvede paternamente a distribuire acqua e viveri, facendo l’appello: Cottonaro, Maccari, Mannetti, Marzo, Nanni, Noreto, Pellacari, Ragusa, Rampazzo, Roberto, Saussone, Spinelli e Vago. Intanto, con il buio, il putiferio si Va calmando, e il gruppetto si corica in uno scavo protetto, sul fondo della infossata depressione di Mreir. La gran stanchezza provvede a tutti un sonno di piombo, con il senso di sicurezza dato dalla linea antistante, almeno tre chilometri e ben guarnita. Ma alle 23 irrompe un raid neozelandese infiltratosi in silenzio. Senza un solo sparo, a colpi di mannaia e di pugnale, Rossi e le reclute vengono massacrati. Non vi sono superstiti, e la selvaggia strage è avvenuta in pochi secondi, a tergo delle batterie, dove tuttavia la prontezza del capitano Luigi Avezza e del tenente Salvino Garetti riesce a salvare quattro obici e a far saltare i due restanti. Il nemico non ha potuto avere i pezzi di Pardi, la cui memoria è sacra. I pochi prigionieri catturati dai neozelandesi vengono ricuperati prima dell’alba da un contrattacco tedesco.
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Pag. 82
(28 luglio 1942) Un censimento esatto delle perdite non è possibile, e forse non lo sarà mai. Reparti interi sono scomparsi con ruolini e carteggi. Hanno potuto essere individuati, tra i caduti del 1° artiglieria “Eugenio di Savoia”: tenente Serafini, tenente medico Mainetti, sotto tenente Gargano, del 3° celere “Duca d’Aosta” il capitano Notari e il sottotenente De Rosa
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Pagg. 119-120
(21 agosto 1942) Dopo otto chilometri la camionetta (con i magg.ri Sillavengo e Crivelli) lascia la Palificata, ne percorre altri diciassette su terreno discreto, e prosegue sul ciglione di un grande avvallamento. Il fondo è spaventoso, irto di pietroni acuminati, ma soltanto dopo qualche chilometro sarà possibile scendere nella depressione, che si chiama Deir el Qatani, seguendo i cartelli indicatori della divisione Bologna. Ora v’è una sabbia tenera e smossa dal continuo passaggio, dove la camionetta resta conficcata e immota. L’autista ha avuto un attimo di distrazione, e ora bisogna scavare e spingere. Sbucano alla superficie del suolo alcuni artiglieri, e volenterosi si inarcano contro il veicolo, subito disinsabbiato. Un caporale dall’aspetto fiero dice: “Se vogliono favorire nella mia buca. Ho già messo il caffè a scaldare. Disseta meglio che l’acqua salmastra”. La buca è vasta e capiente, coperta da quattro teli tenda accoppiati. Sotto v’è una mitragliera Oerlikon da 20 millimetri, incappucciata ma con il caricatore a posto, pronta al tiro. Il caporale la scopre, mostrando orgoglioso l’arma lucentissima e bene oliata. È un posto di difesa antiaerea, isolato al centro della depressione, ben dissimulato tra i cespugli. Il terreno circostante, per quanto pieno di crateri di granate, mostra che il pezzo non è particolarmente individuato. Dice il caporale che la posizione iniziale sotto il ciglione era un inferno. Intanto egli, che prima stava a torso nudo, s’è infilato la sahariana, un po’ per rispetto, un po’ per mostrare i due nastrini azzurri che la ornano, due medaglie di bronzo. I due maggiori lo complimentano. Racconta di aver abbattuto diversi apparecchi inglesi, in Marmarica, e uno anche recentemente, presso la ferrovia, dove il suo reggimento, 3° artiglieria celere “Duca d’Aosta”, stava con la defunta divisione Sabratha. Proviene dalle antiche batterie a cavallo, dove era da permanente, è di Magenta, classe 1913. “Dove sono i bei tempi del cheppì con la coda di cavallo, e della sciabola?” dice. “Ora siamo qui a farci divorare dalle mosche. La batteria è sparpagliata un po’ dappertutto. Ma il mestiere antiaereo non è brutto. Purché si abbassino sotto i duemila: con la mitragliera da 20 non si può fare di più.” In questo momento s’ode un ronzio d’aereo, ma nessun artigliere si muove: è, evidentemente, un apparecchio dei nostri, italiano o tedesco. “Come fate a saperlo?” chiede Sillavengo. “L’aereo è invisibile, nascosto dietro una nuvola.” Il caporale spiega che il perfetto riconoscimento acustico d’un apparecchio è dato dalla buca stessa, chiusa dai teli tenda, e dalla interna risonanza. Tutti gli aerei, ascoltati all’aria libera, danno pressappoco lo stesso rombo, ma quelli inglesi, ascoltati qua sotto, fanno un rumore intermittente e caratteristico: vooo… vooo … vooo. Invece gli altri producono un suono continuo: voooooooo. Come quello che sta passando in questo momento. E infatti eccolo, sta uscendo dalla nuvola, è un Me 109. Il caffè è eccellente. Ancora di quello preso a Tobruk. “Peccato sia quasi finito”, dice il caporale. E improvvisamente grida: “In batteria!” I serventi corrono al pezzo dopo avere scoperto la buca. L’orecchio esercitato aveva già udito un nuovo aereo in cielo, ancora lontano. Vooo… vooo… vooo. Nemico. Il pezzo è brandeggiato, pronto a far fuoco. L’apparecchio compare in un tratto sereno, fuori tiro, e si dirige a levante. “È un bombardiere che rientra da Marsa Matruh, o da Fuka, o da Daba. Se ha lasciato la formazione significa che ha ancora da sganciare. Lo farà probabilmente sulle posizioni della Brescia, o sul forte Menton dove è il comando dei paracadutisti tedeschi.” Così il bravo caporale. Dopo cinque minuti giunge il boato di tre esplosioni sorde.
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Pag. 123
(agosto 1942) La Líttorio accoglie pure il 3° reggimento artiglieria celere Duca d’Aosta, ed è noto come l’artiglieria volante abbia tradizioni, eleganza e stile pari alla cavalleria, rientrando nello stesso mondo un po’ distante, quasi una casta, al quale appartengono i generali Barbasetti di Prun, capo di stato maggiore del comando superiore, De Stefanis e Ruggeri Laderchi al XX corpo, il vecchio Manca di Mores comandante generale dell’artiglieria, Mancinelli e Niccolini.
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Pag. 150
(3-4 settembre 1942) Una mina ha ucciso il più giovane italiano dell’armata corazzata, semplice artigliere: Sergio Bresciani da Gavardo, che da poco aveva compiuto i diciassette anni. Ne aveva soltanto quindici quando era fuggito da casa per combattere in Libia. Come aveva traversato il mare, e soprattutto come era riuscito a raggiungere il 3° reggimento artiglieria celere Duca dAosta, nella Sirtica? Il colonnello Cesare Ruggeri Laderchi e il maggiore Giuseppe Zironi erano ammirati da tanto ardore, ma non potevano accettare un volontario così giovane senza il permesso scritto del padre. Dopo un po’, giunse anche il permesso scritto del padre Davide Bresciani, orgoglioso di vedere il figlio che seguiva le orme degli zii, volontari nella prima guerra mondiale, un dragone e un bersagliere, ambedue caduti. Sergio visse tutte le vicende della Pavia, della Sabratha e della Littorio, sempre lieto ed entusiasta, pronto a sacrificarsi per i compagni. Rommel lo aveva personalmente decorato della croce di ferro di seconda classe e poi anche di prima classe. Aveva pure avuto la medaglia d’argento italiana. Appena colpito mentre il suo amico Carlucci lo soccorreva, si preoccupava di far riportare al capitano Amatucci, comandante di batteria, il binocolo che aveva a tracolla. Poi disse a Carlucci: ” Di’ al signor tenente che mi scusi se ho commesso qualche mancanza”. Il giorno prima, colpito al petto da una pietra proiettata da una granata, aveva esclamato: “Meno male, non sono ferito, posso restare in linea”.
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Pag. 152
Alla memoria di Sergio Bresciani, l’artigliere fanciullo, fu concessa la medaglia d’oro, e non fu certo una distinzione ottenuta attraverso preminenti influenze. Ecco la motivazione: “Avanguardista quindicenne, fuggito da casa per accorrere sul fronte libico, portava nella batteria che lo accoglieva la poesia sublime della sua fanciullezza eroica. Sempre primo nel pericolo, rifiutava qualsiasi turno di riposo, riuscendo, in ogni occasione, di superbo esempio ai compagni più anziani. Durante una giornata particolarmente aspra in cui il reparto veniva sottoposto a violentissimo tiro di controbatteria, in qualità di tiratore dell’ultimo pezzo rimasto efficiente, in piedi continuava a sparare fino all’ultimo colpo al grido di “Viva il terzo celere”. In altra azione di guerra, colpito dallo scoppio di una mina che gli recideva una gamba, sopportava la medicazione con stoica fermezza e prossimo alla fine pronunciava parole stupende di amor patrio, rammaricandosi di doversi separare dal reparto e dai compagni. Splendida figura di eroe fanciullo, simbolo purissimo delle virtù della gente d’Italia”.
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Pag. 207
Dal diario del comandante il 31° [Battaglione Genio Guastatori d’Africa, n.d.r.].
22 ottobre 1942 ‑ “Nella depressione di Deir Alinda, ben dissimulata, è in posizione una batteria da 75/27 del 1° celere, invisibile al nemico, ma individuata con precisione. Scompare in una salva di quattro 88. Due uomini corrono verso la batteria, portano una barella ripiegata, scom paiono nel fumo di una nuova salva. Il vento porta via il fumo, i due non si vedono più. Colpiti? No, riappaiono dopo la terza salva, portano la barella carica, si dirigono correndo verso il costone del battaglione Sammarco. Bravi portaferiti, non hanno aspettato la fine del tiro per soccorrere il compagno. Ma sono arrivati troppo tardi: l’artigliere sta morendo. Era in Africa da trentasei mesi.”
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Pag. 246
(novembre 1942) ‑ Un autocarro isolato, molto a sud, corre lungo le pendici della gran Depressione: porta una ventina di artiglieri dell’antico gruppo Pardi, II/1° celere “Eugenio di Savoia”. Comanda l’autista, audace ed energico caporalmaggiore, Antonio Fabris da Bassano, fedelissimo del comandante indimenticabile. Tiene con mano sicura gli uomini e il volante, dirige senza esitazione tra valloni e pianori, supera le infiltrazioni nemiche, raggiunge la litoranea al bivio di Siwa prima che vi giungano le avanguardie incalzanti. Combatteranno ancora perché si sentono eredi del comandamento che il maggiore morente ha lasciato loro.
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Pagg. 248-249
(novembre 1942) ‑ Tra i nuovi arrivati c’è un tenente piemontese, prototipo dell’artigliere tradizionale, alto, fiero, di poche parole. Ha il lato destro del cranio tempestato di schegge. L’acutissima sofferenza sopportata per ventinove chilometri di sobbalzi dovrà ora prolungarsi per altri centotrentadue. Si chiama Gianni Rigaldo e comandava una batteria fortissima e antiquata, 121 2,1 del I/3° celere “Duca d’Aosta”, divisione Littorio. L’ultimo suo schieramento era proprio a sud del minareto, al limite della battaglia di carri. Ma non si può parlare di schieramento quando la batteria è ridotta a un solo pezzo. Rigaldo, dall’ospedale di Matruh, non appena riavuto dalla sofferenza e dal dissanguamento, poco prima dell’intervento che gli estrarrà le schegge, scrive al tenente colonnello Salonini, suo comandante di gruppo, e narra le vicende della batteria con parole semplici. Il pezzo superstite lasciava avvicinare i carri a breve distanza e li fulminava uno dietro l’altro, mentre le altre batterie venivano travolte. L’attacco più pericoloso veniva spezzato in tal modo, ma il sottotenente Proserpio cadeva, abbracciato al cannone, e quasi contemporaneamente era ferito lui stesso, Rigaldo. La lettera narra l’eroismo del sergente maggiore Giorgio Cristofolo, un messinese di Giardini, ferito gravemente: e l’incredibile calma del caporalmaggiore Vittorio Ceccarelli, anche quando i carri erano a pochi metri. Cosi si comportava anche il caporale Oreste Ghirardini da Brescia. Il caporale Morelato, sotto fuoco intenso, ha potuto mantenere efficiente la linea telefonica. Ora, conclude Rigaldo, la batteria non ha più ufficiali ma è in ottime mani: i sergenti maggiori Enoch Angelini da Pesaro ed Enzo Liberati romano sono “elementi di sicura e provata capacità”. Poi la lettera abbandona il tono della relazione di servizio e diviene patetica. Rigaldo narra di Luigi Proserpio: “Eroico ufficiale e compagno leale, sempre sereno e allegro. Aveva addomesticato un gallo, capitato alla mensa vivo, non so come, e lo aveva chiamato Guglielmo. Ebbene, Guglielmo riconosceva il suo padrone in mezzo a tutti, ed era capace di stare a lungo appollaiato sulle sue spalle”. Un giorno glielo uccisero, e finii in padella: il povero Proserpio non sapeva darsene pace.
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Pag. 262
Conviene ricordare qui il 554° gruppo semoventi della Littorio, maggiore Barone (semoventi da 75/18 in forza al 3° reggimento artiglieria celere “Duca d’Aosta” Tn,dr1). Una scorsa all’elenco dei caduti rivela l’alto contributo del gruppo: capitano Boglione, sottotenenti Breda e Riccardi, sergente Gaggia, caporalmaggiori Sabatini e Colombari, artiglieri Orsatti, Alzani e Canova, tutti caduti negli ultimi giorni; e l’artigliere Forti, gravemente colpito all’addome, salvato dal bravo dottor Fiammenghi, e ucciso tre giorni dopo da una incursione aerea sopra il suo ospedale. Figura preminente del gruppo era il comandante la prima batteria, capitano Davide Beretta, architetto milanese che il 30 ottobre portò all’attacco i suoi semoventi, ritto sopra il parapetto. Un proiettile perforante gli tolse assieme mezza faccia, conoscenza e memoria: contemporaneamente, a Milano, gli nasceva il secondo figlio, Sergio. Seguirono anni di torturante incoscienza: poi avvenne il doppio miracolo della faccia ricostruita e della memoria ricuperata a forza di volontà e di serena fede. Possiede una documentazione vastissima: tocca a lui il compito di narrare la storia del 554°, di ricordare gli altri morti, e tra i superstiti gli uomini di gran valore come i tenenti Ghinelli e Barbetta, i sottotenenti Grande e Pozzi, e ancora un vero eroe, il sottotenente Angioy che uscì vivo dalla bufera ma per morirne poco tempo dopo. E il sergente maggiore Pellizzaro; il caporalmaggiore Virgili, straordinario motociclista che guizzava sulla sabbia e sotto le mitragliate come se fosse sopra una delle sue strade, tra Castelfranco e Bassano, emulo di altri famosi motociclisti di Alamein, Capuzzo del 132° artiglieria, Micovilovich del 520 gruppo cannoni, Crespi e Baldrighi del 31° guastatori. E ancora i caporalmaggiori Sereni, Orsega, Balestri, Berti, Zancanaro, Prandi, Povolo, Morotti e Poli; gli artiglieri Cabrini, Giacobbi, Manzati; e Labombarda che giuringendo in Tunisia si preoccupava di far decorare i compagni caduti, e ne scriveva a Beretta che non poteva allora, né leggere né intendere. Quando Beretta fu colpito, il dottor Cecco Fiammenghi fece quanto poteva con i suoi scarsi mezzi, e lo affidò ai colleghi della 51~1 sezione sanità Trento, che si trovava in una situazione singolare. Quel complesso sanitario era stato sorpreso dalla battaglia mentre si trovava attendato a ridosso delle sacche minate jed L. Scomparse le antistanti fanterie, si trovò a portata di fucile, anzi di baionetta, dal nemico: e continuò imperterrito la sua funzione a favore di italiani, tedeschi e inglesi, non solo, ma trattò Beretta con arte di alta chirurgia: e la tenda operatoria poteva da un momento all’altro, essere spianata da uno Sherman. Il perfetto lavoro fu constatato poche ore dopo, al 165′ ospedale da campo, dallo stesso dottor Ronchetti. E per completare la divagazione, tornando al posto di medicazione del 554′, si ricorda come vi arrivasse in orrende condizioni, appena ferito, il maggiore Verri dell,X1 carristi Trieste. Fiammenghi gli amputò ambedue le gambe. Verri, tranquillo “come se gli mettessi delle gocce negli occhi”, scrisse il dottore, chiese una sigaretta e raccontò la sua avventura come fosse capitata a un altro.
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Pagg. 283-284
(1952) ‑ Un giorno Pauer ha fatto incontrare Sillavengo con un “tedesco altolocato e incognito “, il generale Artur Schmitt, antico comandante del settore Bardia Passo Halfaya, notissimo per la memorabile resistenza, durata oltre quaranta giorni, contro l’assedio inglese (…) “Se un giorno potrò uscire alla luce solare con il mio nome e il mio rango”, ha detto il generale che si presenta come dottor Múller, “il mio primo atto ufficiale sarà una visita all’ambasciatore d’Italia. Gli voglio esprimere l’orgoglio di aver avuto ai miei ordini sette battaglioni italiani e quattro gruppi d’artiglieria come quelli della Savona e del 2° celere. Dove potrò mai trovare degli splendidi ufficiali come il generale De Giorgis, il colonnello Grati, i maggiori Pardi e Santamaria?”
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Pag. 285
Ricognizione n. 145. 3 marzo 1952. Zona di frontiera, Passo Halfaya, Sollum e Bardia. Ricerca dello stendardo del 2° artiglieria celere “Emanuele Filiberto”, interrato nello Uadi Gerfan, prima della resa, il 2 gennaio 1942. Dati di posizione forniti dai testimoni oculari. Negativo. Probabilmente lo stendardo è stato ritrovato e distrutto dagli indigeni, aizzati contro noi nell’euforia della vittoria britannica, pochi giorni dopo.
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Pag. 296
Cimeli (…)
Nella zona di Passo Halfaya, a quindici chilometri dalla frontiera libica, restavano tre ricordi guerrieri italiani: la cappella del 2° artiglieria celere “Emanuele Filiberto di Savoia”, con un medaglione di Santa Barbara in pietra del posto, il cippo dei 61° mitraglieri con l’immagine della Vergine e la scritta “Ave Maria”, e una poderosa colonna di travertino in tre pezzi, proprio sulla linea di confine. Era sembrato logico non toccar nulla, e onorare i cimeli nella loro sede; ma erano cominciate, ovunque, le distruzioni delle tracce italiane, e si ritenne che Quota 33, almeno per un po’ d’anni, sarebbe stata zona meno indifesa. Sillavengo e Chiodini andarono sul posto con un autocarro e gli attrezzi atti alla rimozione. Già troppo tardi per la cappella, ridotta a un cumulo di macerie, tra le quali a fatica furono ricuperati i frammenti del medaglione, una ventina. L’iminagine della Vergine era scomparsa, qualche mina aveva intaccato, senza troppo danno, il cippo e la colonna. Si ricuperò quanto si poteva.
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Pag. 297
I nostri semoventi da 75/18 erano i soli, con i Panzer IV tedeschi, che potessero far fronte ai pesanti Grant, Lee e Sherman del nemico. Il Maggiore di Complemento Conte Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo nel ricordo di Davide Beretta ‑ DLIV gruppo semoventi del 3° Reggimento Artiglieria Celere “Amedeo di Savoia” ‑ in “BATTERIE SEMOVENTI ALZO ZERO. QUELLI DI EL ALAMEIN”: “A Quota 33, non molto lontano dal mare, è sorto un severo sacrario dove riposano ‑5.346 caduti per la Patria. Una nobile figura di combattente-artista, più alta del suo stesso capolavoro, progettato e diretto durante la costruzione, con la fede del missionario e la tenacia dell’alpino, ha potuto raccogliere e custodire le spoglie di quelli che scrissero col sangue la tragica leggenda di El Alameín. Da anni cerca, in quel mare di sabbia infida, le povere ossa dei caduti: ricostruisce la storia delle loro battaglie, dall’attimo in cui la morte li fermò nello spasimo dell’assalto. Controlla per ognuno il giorno del sacrificio, il corpo ed il reparto al quale appartenevano e, qualche volta, dalle piastrine personali, non del tutto corrose dal tempo, rileva il loro nome ed il relativo numero di matricola. Grazie, maggiore Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo dell’allora XXXI battaglione guastatori. Grazie anche al suo eroico ed umile aiutante, Renato Chiodini, magnifico soldato di carità. Grazie per quanto Ella ha voluto e potuto fare per l’Italia, per i soldati amici e nemici, e per tutte le mamme degli artiglieri del DLIV gruppo semoventi. Grazie del Suo pellegrinaggio d’amore a Tell El Eisa che il mondo intero ha ormai riconosciuto come sublime apostolato”.